Quando torni da un viaggio è difficile scegliere cosa ricordare. Ti accorgi di cosa ti è rimasto davvero, quando? Forse al quarto, quinto racconto? E dell’Iran la verità è che, ogni volta, mentre racconti, capisci qualcosa in più del suo universo, a tratti così impenetrabile, che ha il potere di suscitare nella tua testa solo riverenza, stupore, rispetto.
Perché al di lá di quello strano connubio tra religione e politica che sa di tradizione millenaria e senso di appartenenza di cui noi abbiamo quasi completamente perso il gusto, ciò che mi è rimasto di questo viaggio è la purezza della gente.
La rivoluzione silenziosa e gentile che gli iraniani stanno portando avanti con il sostegno della politica, scegliendo di sorridere allo straniero, al viaggiatore o semplicemente all’uomo.
Cercando di trasgredire, con umiltà, le leggi della repubblica islamica per chiedersi, da semplici cittadini se, oltre a questi limiti, ci può essere un mondo diverso, un’alternativa, una evoluzione.
Una lezione non da poco, perché tutto questo, si chiama progresso.
(Nella piazza di Naqsh-e jahàn a Isfahan)
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